Andreina Robotti nell’analisi di Filiberto Menna

Così fiorisce il gotico

L’arma dell’ironia. Un’immediatezza che colpisce e sorprende

È forte la tentazione di scandire in due capitoli la storia artistica di Andreina Robotti o di paragonarla a una messa in scena in due atti. Dalla prima parte la critica ha già avuto occasione di descrivere e ne ha scritto, con penetrazione e empatia, Italo Mussa in un libretto del ’79. Il primo capitolo, quello appunto analizzato in questo studio di Mussa, coincide con il momento ideologicamente impegnato di Andreina Robotti, la fase in cui l’artista mette la propria capacità ed estetica al servizio del movimento delle donne esercitando un’azione corrosiva attraverso l’esibizione di indumenti femminili commentati da un fitto tessuto decorativo, scrivendo appunto di queste opere Italo Mussa osserva che «l’indumento da cosa intima(silenziosa) è diventato un oggetto del desiderio, assumendo i connotati di un ambiente sociale saturo di comunismo. Se perde in qualità (nascosta), acquista però in quantità fin troppo trasparente. E nel sociale la sua irruzione diventa ironia…».

Ecco: l’arma di cui si serve Andreina Robotti è proprio l’ironia, a volte corrosiva fino al sarcasmo e alla invettiva; ma il più delle volte l’artista attenua l’attacco, lo addolcisce con un sorriso bonario che avvolge la vittima e il carnefice in una medesima condizione. In questo esercizio dell’ironia ha un ruolo non secondario la scelta dei titoli delle opere, secondo una buona tradizione che risale almeno ai surrealisti: il risultato è una singolare commistione di immagine e di parola ottenuta mediante i procedimenti di spostamento e condensazione del motto di spirito.

Questo è il capitolo che conoscevo della storia di Andreina Robotti e non sapevo nulla del seguito del racconto fino a quando ho visitato a Verone una rassegna degli artisti veronesi allestita alla Gran Guardia.

Qui, accanto alle opere precedenti già note, l’artista presentava una nutrita serie di dipinti, eseguiti negli ultimi anni, a me del tutto sconosciuti e tali, comunque, da far rileggere il suo lavoro da un nuovo punto di vista. Del resto, la stessa Robotti, ha confessato di aver lavorato in questa nuova direzione in silenzio, quasi timorosa di concedersi al piacere della pittura e agli abbandoni della sensibilità che questi dipinti recenti esprimono con incoercibile franchezza: «Mi pareva che la critica fosse orientata a sostenere trovate eclatantes e considerasse superato questo modo di fare arte, che io invece sentivo vivamente».

Chiedo scusa ad Andreina Robotti se rendo pubblica, qui, una sua confessione, sussurrata, direi, in una lettera inviatami qualche tempo fa, ma è difficile rinunciare a una dichiarazione come questa che ci da una buona chiave per interpretare il suo lavoro recente intanto, questo modo di lavorare «in silenzio», quasi si trattasse della stesura di un diario segreto, mentre all’esterno si offre il volto già noto e accettato, si riflette direttamente sulla qualità dei risultati raggiuti, conferisce loro, cioè, quel tanto di immediato, di improvviso, che in queste opere è ciò che più colpisce e sorprende. C’è poi l’esercizio di una manualità traducentesi in una pittura che è nello stesso tempo scrittura e che ricorda lo splendore delle pagine miniate di un libro d’oro.

«Gotico fiorito» è il titolo di un’opera recente di Robotti e non sorprende se l’artista, che ha trascorso l’infanzia e la gioventù a Siena e la maturità a Verona, sia rinata alla pittura con il ricordo della felicità cromatica di quella lontana, ma sempre seducente, stagione dell’arte. Una fioritura gotica, dunque, ma con l’innesto di una nuova linfa, di nuovi e più moderni nutrimenti. Forse che nel laboratorio segreto di Andreina Robotti si danno la mano Pisanello e Kandinsky? Per quanto mi riguarda, sono convinto che l’artista abbia saputo gettare un ponte tra queste rive lontane dell’arte occidentale e da questo incontro si sia mossa per approdare sul terreno fiorito di una nuova pittura musicale, orfica.