La memoria alla ricerca di un tempo lunghissimo
La mostra di Fautrier, aperta al Break Club di Roma, nel cuore di Trastevere, ci fa rivivere l’intensa stagione artistica romana della fine degli anni Cinquanta, quando poche gallerie (quasi tutte situate tra Piazza del Popolo e Piazza di Spagna) ci fecero vedere i maestri informali e, subito dopo, i primi segni della situazione degli anni Sessanta.
Del resto il Break Club è di Ennio Borzi che fu socio della Galleria «L’Attico» di Bruno Sargentini, dove fece la sua prima apparizione romana appunto Jean Fautrier. Si era nel 1958 e due anni dopo soltanto l’artista vinse il premio alla Biennale di Venezia e Palma Bucarelli gli dedicò, nelle edizioni del Saggiatore, una penetrante e appassionata monografia. Nella sua introduzione al catalogo Augusta Monferini ha ricordato quegli anni rievocando anche il suo incontro con l’artista francese alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna; «Fautrier veniva silenziosamente a far visita a Palma Bucarelli che stava mettendo insieme il suo catalogo, nelle prime ore del pomeriggio, di solito. Ero affascinata dalla grazia elegante della sua figura minuta e asciutta, quasi felina, e dal suo sguardo limpido ma così lontano».
Fautrier ha sempre esercitato una singolare fascinazione su coloro che gli furono vicini: nella stessa monografia della Bucarelli, si possono leggere alcune pagine (oltre tutto tra le più suggestive) dedicate alla vita dell’artista, all’accoglienza che egli ebbe negli ambienti parigini tra le due guerre, ai personaggi, anche prestigiosi, che gli furono amici, da Paul Guillame e la bellissima moglie Jeanne Castel, a Sborowski, fino a Malraux e a Braque.
La mostra romana è bene impostata sia nella sequenza cronologica dei lavori sia nella scelta qualitativa: dopo un «Nudo» del 1926 c., appartenente al periodo «sombre», segue la serie straordinaria degli «otages», dei «nudi femminili», delle «teste di partigiani», degli «objets», le opere con le quali fin dagli inizi degli anni Quaranta Fautrier si spinge nei territori sconosciuti di un’arte assolutamente «autre», come la definì di lì a poco Michel Tapié: «È vedendo le opere nuove di Fautrier che ho avuto l’impressione che ci fosse autre chose» (1943).
È proprio questa alterità della esperienza pittorica dell’artista francese che la mostra romana ci restituisce pienamente, consentendoci di coglierne la polivalenza di significati, l’ambiguità fondamentale, l’altalenare continuo tra voluttà e dolore, felicità e disperazione, paradiso e inferno. Nell’opera di Fautrier agiscono infatti sollecitazioni opposte, con un’azione simultanea che l’artista non vuole assolutamente risolvere, scegliendo uno dei termini in gioco. La densità materica non è impiegata per un puro effetto decorativo ma proprio come mezzo per coinvolgere lo spettatore in una lettura lenta e graduale dell’opera, in grado di cogliere tutte le accidentalità della superficie pittorica e di attraversarne lo spessore, ripercorrendo, lungo questo tragitto, il cammino a ritroso della memoria inconscia.
È d’obbligo, a questo punto, un richiamo a Proust, in quanto entro i confini limitati di un quadro di Fautrier, come entro i limiti della pagina proustiana, il lettore può vivere un tempo lunghissimo, inseguire i labirinti dei segni e delle parole, i sentieri sinuosi che essi tracciano e che portano appunto nelle profondità della memoria involontaria.
A differenza di molti altri pittori (come Pollock, ad esempio) Fautrier ignora le analogie brucianti che fondono, in una breve illuminazione poetica, punti lontanissimi tra loro: nei suoi quadri non ci sono scarti improvvisi, ma lenti passaggi di stati d’animo veicolati da una pittura senza dissonanze, dove, se appare una nota più aerea e squillante, ti accorgi che è sempre preparata da accordi uguali di toni e semitoni: «Una coscienza lucida e piena di sofferenza come una notte d’insonnia».
Ma è una «notte» da cui Fautrier riesce a salvarsi proprio in virtù della sua pittura, per cui a me sembra che si possa attribuire a lui e alla sua opera (parafrasandola) la definizione di Sergio Solmi della poesia contemporanea: «Il paradosso (della sua pittura) sembra consistere in questo: una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni».