Perché gli artisti cercano l’autonomia
Allo slogan «l’arte resta arte», con cui si apriva la mostra Project ’74 di Colonia, Daniel Buren rispondeva con lo slogan «l’arte resta politica», mentre Giuseppe Chiari lanciava un terzo slogan, «l’arte resta lavoro». Queste parole d’ordine rappresentano un sintomo eloquente di una diffusa sensazione di malessere che percorre da qualche tempo le correnti artistiche internazionali, spingendo gli artisti a cercare un più franco confronto con la realtà sociale e con le contraddizioni del presente.
Linguaggio
L’insoddisfazione per un’arte dedicata esclusivamente ad una analitica del linguaggio si era già fatta sentire nell’ambito del gruppo inglese di Art Language, che aveva spinto fino alle conseguenze estreme una interpretazione del fare arte come analisi linguistica. Proprio recentemente il gruppo inglese si è difatti presentato con un lavoro sul tema del materialismo dialettico quasi a dimostrare la necessità di oltrepassare il momento dell’autoanalisi del linguaggio e di insistere maggiormente sull’ordine dei significati.
Non sono pochi ormai gli artisti, provenienti dalle esperienze più avanzate nel campo sia dell’arte del comportamento che dell’arte concettuale, che insistono con forza crescente su una componente ideologica, facendo della propria ricerca il luogo di una manifestazione di dissenso, di proposta diversa nei confronti dell’ordine del discorso stabilito dai centri del potere.
Sui rapporti tra arte e ideologia, riproposti dalle nuove correnti dell’arte al di fuori dei canali tradizionali entro cui quei rapporti sembravano inevitabilmente confinati (le diverse forme di realismo pittorico e plastico), gli Incontri Internazionali d’Arte di Roma hanno dedicato un ciclo di manifestazioni, che tiene cartello già da alcuni mesi e si concluderà alla fine di Maggio. Nella intenzione di Bonito Oliva, che ha curato l’iniziativa, il ciclo degli incontri vuole essere una ricognizione aperta delle nuove proposte di un’arte esplicitamente ideologica senza far ricorso a un rigido criterio di selezione preventiva; intervento critico vuole cioè collocarsi in un momento successivo, quando cioè sarà possibile compiere un primo bilancio dell’intera operazione.
Nei locali di Palazzo Taverna si sono succeduti, con un ritmo estremamente serrato, che ha posto a dura prova la costanza del pubblico (sempre nutritissimo tuttavia), artisti e critici, italiani e stranieri, quali Argan, Pleynet e Milanese, Merz e Agnetti, Vettor Pisani e Degange, Chia e Zul Goldstetn, De Filippi, Ravedone, Paradiso, Benveduti, Colalano, Falasca. Ha aperto gli incontri Argan con un intervento che ha posto in evidenza il ruolo dell’arte nella società odierna, la sua funzione critica, il suo proporsi come pratica del diverso, e del dissenso.
Pleynet ha lanciato questo tema, sostenendo che proprio l’arte moderna nasce da questa esigenza oppositiva di fondo, dalla volontà di porsi come discorso alternativo ad un discorso del potere costituito. Di particolare rilievo, da questo punto di vista, si è dimostrato l’incontro tenuto dall’assessore alla cultura del Comune di Roma, l’architetto Niccolini, e da Vincitorio e Volo, nella doppia veste di critici e artisti e di responsabili di organizzazioni sindacali. Gli artisti, dal canto loro, non si sono limitati a presentare le opere, ma hanno voluto prendere direttamente la parola proponendo un discorso teorico sull’arte e sul destino sociale dell’arte.
Dall’insieme delle proposte, emerse finora, è possibile forse azzardare una risposta alle domande lasciate sospese (nonostante l’apoditticità delle formule) dagli slogans che abbiamo ricordato all’inizio. Sia negli interventi critici che in quelli operativi sembra farsi strada un acquisto teorico importante, la condizione cioè di una autonomia relativa del campo specifico dell’arte in relazione dialettica con altri campi e discipline.
Territorio
Contro le troppo facili e frequenti e già usurate parole d’ordine, che vogliono imporre all’arte compiti che appartengono più propriamente ad altre pratiche, questi artisti sembrano affermare che il territorio in cui l’arte deve agire rimane, in prima istanza, il territorio dell’arte. Altrimenti, l’arte non è più tale, ma non è nemmeno politica, ma solo ideologia, da intendere questa volta come falsa coscienza, e dell’arte e della politica. Possiamo dichiarare, a questo punto, un pieno consenso con lo slogan lanciato da Chiari a Colonia, secondo cui l’arte resta lavoro.
Ma (questo è il punto) di quale lavoro si tratta? Di un lavoro materiale, certamente, ma di un lavoro che nasce e si sviluppa dentro il linguaggio e in esso trova le proprie gratificazioni e le proprie contraddizioni. I testi degli Incontri Internazionali insistono, non a caso, proprio su questo problema della contraddizione nell’ambito di una concezione dialettica del reale, e si mostrano tutti consapevoli dei margini ristetti entro cui si muove la pratica dell’arte. Ma la contraddizione esalta, non impoverisce, la funzione dell’arte in quanto ne mette in evidenza il ruolo oppositivo, la forza alternativa che essa attinge, in qualche modo, dalla sua stessa marginalità.