Un pittore di mestiere, Louis Cane
Con la sua mostra recente, allestita a Parigi dalla galleria Templon, Louis Cane conferma quel singolare elogio del «mestiere di pittore», che aveva già proposto nel ’75 in uno dei suoi saggi di teoria della pittura. Singolare in quanto non ci aspetteremmo, da un artista sofisticato, così «assolutamente moderno», come lui, un elogio del mestiere, ossia di un modo di praticare la pittura che troppe volte è stato assunto come un alibi per far passare i richiami all’ordine e i ritorni alla tradizione. Naturalmente, non è in tal senso che Louis Cane ripropone, l’elogio del mestiere di pittore. Egli guarda soprattutto a Cézanne, al «lavoro sapiente» con il quale l’artista provenzale voleva fare l’impressionismo qualcosa di solido e di duraturo come l’arte dei musei, di rinnovare Poussin mediante la natura. Il mestiere è per Cézanne appunto questo lavoro sorretto dalla consapevolezza che la pittura ha una sua storia, una sua continuità-discontinuità linguistica, che è, in definitiva, un sistema al quale il pittore non può non riferirsi nei singoli atti del fare pittura. Per Cane il mestiere ha un significato analogo, rinvia cioè direttamente alla pittura antica, e di conseguenza introduce nella pratica pittorica un elemento di contraddizione: «Ora – egli scrive – su questo punto preciso io m’interrogo poiché mi trovo oggi sempre più a porre una domanda, non più sul saper-fare naturalista, ma sul saper-fare pittorico e su un mestiere derivante da una pratica in cui la rappresentazione naturalistica funzionava di volta in volta come luogo di confronto e come punto di resistenza». Del resto, Cézanne aveva già assunto un atteggiamento dialettico nei confronti del museo, della tradizione, della pittura come sistema, nel momento in cui poneva la domanda, rimasta poi fondamentale per tutta l’arte moderna, «Che cosa si cela dietro questa vecchia pittura?», e per tutta risposta si dava il compito di mettere allo scoperto questo segreto, senza più accontentarsi delle «belle formule dei nostri illustri predecessori». Cane pone come questione analoga, o, meglio, si colloca anche lui in un luogo di contraddizione dialettica nel momento stesso in cui si chiede come mai egli avverta l’esigenza di riprendere il mestiere, e il sapere ad esso legato, per far avanzare la propria pittura. La risposta è ancora una volta cercata in una pratica diretta della pittura, in un mestiere, appunto, che però insiste sulla propria differenza rispetto allo stesso modello cézanniano in quanto «pratica-teoria-pratica». L’artista, cioè, sposta il procedimento dal piano immediatamente espressivo-rappresentativo a un piano riflessivo, impegnandosi in un discorso teorico sull’arte (sulla pittura) nel momento stesso in cui fa concretamente dell’arte. Il mestiere si arricchisce di una forte componente critico-riflessiva che riconduce la pittura ai propri elementi linguistici di base e ne verifica il ruolo in vista di una ridefinizione della stessa pittura. E poiché questa è un sistema di trasmissione dell’immagine (in senso largo) su una superficie a due dimensioni, la verifica disciplinare non può escludere tutte quelle tecniche di illusione (a cominciare dalla prospettiva) che traducono le tre dimensioni del reale nelle due dimensioni proprie del sistema-pittura.
Il lavoro recente di Louis Cane si concentra soprattutto su questo punto: il quadro, realizzato con tinte di colore prevalentemente scure, per lo più il nero impiegato con diverse tonalità, riafferma con decisione, forse anche maggiore di prima, il valore della superficie (il supporto aderisce totalmente alla parete); nello stesso tempo, sembra mettere in questione quel valore mediante il ricorso ad espedienti illusionistici di ordine prospettico (gli angoli sono tagliati in modo da creare effetti di sovrapposizione al limite del trompe-l’oeil) o a slittamenti (apparenti) di piani l’uno sull’altro, ottenuti con un processo di addizione e sottrazione del colore. Cane punta esplicitamente su questa contraddizione tra superficie e profondità, su questo scarto permanente tra gli elementi costruttivi del quadro (tra colore e forma, soprattutto) per porre in atto un procedimento di costruzione-decostruzione della pittura. Da questa contraddizione interna al quadro, Cane fa emergere un’altra, e più fondamentale, contraddizione, tra l’opera e l’altro dall’opera. Un altro, «un àcôté» del quadro, che mette in questione la tersa trasparenza del convenzionalismo linguistico, mostrando come l’opera sia motivata, sovradeterminata, da pulsioni profonde che appartengono a una sorta di al di qua del linguaggio, a un «io» che è anche un «egli», a un soggetto che parla ed è parlato dal proprio inconscio.