Una mostra antologica di un artista ancora giovane e attivo ha sempre qualcosa di innaturale, non fosse altro perché sembra proporre un bilancio di ciò che appartiene ancora alla dimensione del divenire e del mutamento. E tuttavia, queste mostre servono, se prese con una qualche cautela critica, consentono cioè di rileggere, attraverso il filo di un discorso individuale, un intero contesto, riesaminare gli aspetti portanti da una più giusta distanza. Così la retrospettiva dedicata a Luca Patella dalla Pinacoteca Provinciale di Bari, in occasione del premio «Pino Pascali» 1976 assegnato all’artista, ci dà la possibilità di situarne il lavoro dentro la serie di concessioni interne ed esterne che ne rendono più chiaro il percorso. Intanto è possibile compiere una prima constatazione: che l’opera di Patella, nonostante la molteplicità delle sue diramazioni, appare ancorata a una costante formativa ben individuabile, a un atteggiamento di base in cui prevale una componente critico-analitica. Questo vuol dire che Patella si concentra soprattutto sul linguaggio dell’arte ed è portato ad esaminarlo in e per se stesso, scollandolo, per così dire, da ciò che di volta in volta esso ci presenta.
L’entrata in scena di Patella, nella prima parte degli anni Sessanta, coincide con il momento della ricognizione e dell’appropriazione della scena urbana che gli artisti italiani (romani soprattutto) compiono anche sotto la spinta della pop americana: ma già in questa fase, Patella si serve di strumenti linguistici (il riporto fotografico, le diapositive, il film) che gli consentono di distanziare il reale e di concentrare l’analisi sui mezzi stessi. Nel film «Tre e basta», del 1965, vengono presentate tre possibilità di filmare una stessa scena in modo da mettere in evidenza il carattere convenzionale della rappresentazione rispetto al referente reale. Negli anni immediatamente seguenti, Patella attraversa l’esperienza comportamentale e della stessa «land art» (con i lavori «Camminare», «Stare al bar» e «Terra animata» del 1967) conservando questo suo sguardo fondamentalmente analitico, per cui il comportamento dei personaggi mentre camminano o stanno al bar e l’ambiente naturale non sono soggetti con cui l’artista tenta una identificazione empatica, ma, al contrario, rappresentano oggetti d’indagine, pretesti per porre in evidenza i procedimenti linguistici della scomposizione, della ripetizione, della misurazione.
Anche quando impiega il linguaggio verbale (da solo o contaminandolo con immagini, grafici, suoni), l’interesse dell’artista non si concentra su ciò che il linguaggio dice, ma su inedite possibilità espressive che il linguaggio può assumere una volta sottoposto a processi di disarticolazione, condensazione, spiazzamento, che affondano le proprie radici nei processi primari dell’inconscio. A volte («Analisi di psico vita», 1972) Patella costruisce una vera e propria storia, un racconto ricco di avvenimenti avventurosi, come un romanzo giallo: ma anche in questi casi non sono i fatti che contano quanto i modi della concatenazione narrativa, l’articolarsi dei diversi segmenti del racconto in una struttura che ambisce al ruolo di analisi narratologica. Riletta da questa angolazione, l’opera di Patella presenta una insospettata unità, una forte coerenza interna al di là della molteplicità e della dispersione sperimentale. Nello stesso tempo, essa agisce da specchio nei confronti della situazione artistica italiana di questi ultimi dieci anni, riflette, con la inevitabile singolarità di una esperienza individuale, una tendenza di fondo che appartiene all’intero contesto, la tendenza cioè a considerare i dati della esperienza artistica non tanto come dati reali, quanto come una riserva di materiali e di strumenti linguistici che l’artista tratta alla seconda potenza, riassumendoli di volta in volta con i procedimenti della manipolazione, della citazione e della contaminazione.