L’Associazione italiana del disegno industriale ha organizzato recentemente a Milano una tavola rotonda tra un gruppo di specialisti sui problemi delle scuole di disegno industriale. Il problema è attuale e scottante, poiché le notizie che provengono da questo settore non autorizzano molto ottimismo anche se non sono così allarmanti come quelle che ci vengono dall’università. Del resto pedagogia del design e istruzione universitaria non possono considerarsi problemi completamente separati.
Per quel che riguarda il designer industriale i problemi pedagogici risultano in qualche misura complicati dal fatto che il designer deve necessariamente operare, per la natura stessa della sua attività, a stretto contatto con l’industria e quindi è particolarmente soggetto a tutti i condizionamenti che la struttura della produzione e del consumo esercita sulla società odierna.
Il settore specifico del disegno industriale è infatti la progettazione di oggetti di uso quotidiano da produrre per mezzo dei sistemi industriali. Questo implica l’intervento della macchina e conseguentemente di tutto l’apparato organizzativo legato alla produzione meccanica. Ma proprio perché si tratta di oggetti destinati a un largo consumo il designer deve tener conto nella progettazione di una serie complessa di fattori di ordine tecnico, economico, produttivo oltre che estetico.
La figura del designer è di conseguenza una figura assai complessa poiché è la risultante di una istruzione polivalente fondata sulla acquisizione delle nuove tecniche industriali e sullo sviluppo autonomo e il potenziamento di doti creative innate. In altri termini, il designer deve poter continuamente ricorrere alle sue capacità d’invenzione di forme originali ed esteticamente valide, ma deve nello stesso tempo rinunciare alla posizione individualistica dell’artista inteso in senso tradizionale, apprendendo i metodi di lavorazione tipici dell’industria.
La scuola di disegno industriale deve quindi tener conto di questa particolare fisionomia del designer e quindi impostare metodi e contenuti pedagogici sulla base di queste due esigenze complementari.
Su questo punto si sono trovati d’accordo tutti i partecipanti alla tavola rotonda milanese, dall’architetto Pierluigi Spadolini della scuola di disegno industriale di Firenze ad Aldo Calò, direttore della scuola di Roma, da Marco Zanuso, presidente dell’Associazione italiana del Disegno industriale, a Tomàs Maldonado, reduce da una fondamentale esperienza pedagogica nella scuola di Ulm, fino a Gillo Dorfles, noto studioso di estetica e specialistica dei problemi di design.
Naturalmente, il possesso di una buona preparazione culturale e professionale non basta a fere un buon designer: la scuola deve cioè preoccuparsi di approntare soprattutto delle metodologie che destino e sviluppino le qualità native dell’allievo, incanalandole verso la formazione di quella particolare forma mentale che contraddistingue il designer. La pedagogia del design deve insistere quindi in modo particolare su una educazione globale dell’allievo, dando notevole peso a quelle materie generali che si possono definire propedeutiche rispetto a quelle più strettamente tecnico professionali.
I metodi applicati nella scuola di Firenze tendono appunto a questo scopo con una impostazione pedagogica che guarda soprattutto alla realizzazione di oggetti e strutture destinati alla collettività più che ai singoli individui. Il direttore della scuola di disegno industriale di Roma ha insistito, dal canto suo, sull’importanza che l’insegnamento sia rivolto soprattutto a sviluppare la ricerca e la sperimentazione in modo da incrementare le qualità critiche e inventive degli allievi. Zanuso ha prospettato un vasto programma pedagogico, estremamente ricco e articolato, sulla cui base realizzare la scuola di disegno industriale progettata a Milano.
Dorfles si è pronunciato a favore di una articolazione delle scuole in due corsi, diversamente complessi, in modo da pervenire a una formazione professionale a due livelli. Maldonado, infine, ha insistito sul ruolo del designer nella progettazione della società moderna e pertanto ha insistito sulle relazioni che non possono stabilirsi tra scuole di design e l’università, che ha il compito di preparare il ceto intellettuale e avviarlo a questa fondamentale attività di gestione del mondo in cui viviamo.
Naturalmente, tutti si sono detti consapevoli del fatto che la scuola è solo un momento di questa formazione e trasformazione dell’intellettuale moderno e, in particolare, del designer. Come ha scritto Misha Black, professore di industrial design al Royal College of Art di Londra, «la scuola non produce designers industriali esperti ma neppure le facoltà di architettura producono architetti già esperti, né le università scienziati già maturi. Noi desideriamo soltanto fornire tutti gli elementi indispensabili per una preparazione e una istruzione futura. Noi chiediamo ai nostri studenti di arrivare al diploma con il senso della loro capacità potenziale, con un’idea chiara delle loro responsabilità nella società, con la comprensione di quei principi fondamentali da cui nascerà il loro lavoro più maturo».