L’ultimo Isgrò parla coll’orologio
Mi chiedo per quali vie segrete, per quali sentieri nascosti e tortuosi Emilio Isgrò si sia venuto a trovare, oggi, nel bel mezzo del dibattito artistico più attuale e la sua opera possa essere posta a canto alle declinazioni recentissime della pittura. Capita, anche se non spesso, agli artisti che lavorano sulla distanza, sull’onda lunga, incuranti di inseguire l’attualità e le mode, anche a costo di sprofondare e di farsi dimenticare, come accade a certe acque che scompaiono all’improvviso per affiorare alla superfice in luoghi imprevisti, più limpide e rigogliose di prima. L’opera di Isgrò mi fa pensare, appunto, a un’acqua carsica, che ora è ritornata alla luce a Bologna, dopo una breve ma intensa apparizione milanese.
Naturalmente, Isgrò non ha bisogno di queste conferme dall’esterno, anche se il trovarsi in buona compagnia, dei più giovani, non gli deve certo dispiacere. Il fatto è che si viene delineando una situazione artistica nuova, con una fisionomia piuttosto precisa, alternativa rispetto ad altre aree più consolidate dal punto di vista della fortuna critica e di quella del mercato.
Si tratta di artisti che rifiutano il pieno, l’ingombro, la sovrabbondanza cromatica, materica, narrativa della pittura dominante, muovendo da un atteggiamento di riduzione, spinta a volte fino all’azzeramento. Per questi artisti ciò che conta non è il pieno, ma il vuoto e l’assenza, la «sensazione concava», di cui parla Musil per indicare una condizione propizia all’esercizio della mente che riflette su se stessa. E non ci vuole molto a capire che Isgrò si trova a suo agio in questa situazione mutata dell’arte non fosse altro perché egli ha sempre lavorato su questi temi, ha sempre contrapposto al troppo pieno dell’immagine o della parola il bianco della superficie o il nero della cancellazione.In definitiva, Isgrò non vuole soluzioni mediane, concilianti, ma sceglie sempre le postazioni estreme (il bianco o il nero, appunto), anche se lo fa per raggiungere un medesimo fine, la realizzazione di una pittura intesa come esperienza non retinica, come costruzione di uno spazio essenzialmente mentale. Di qui il tema ricorrente del vuoto e dell’assenza, fin da quando (e siamo alla metà degli anni Sessanta) egli contrapponeva al pieno dell’immagine pop il vuoto dei suoi poemi visivi, come la Volkswagen e la Jacqueline Kennedy.
Nella mostra allestita in questi giorni nello spazio semplice, quasi ascetico, del Museo civico archeologico di Bologna, il tema del vuoto ritorna in termini espliciti, così come si ripropone il motivo della cancellazione. Questa volta è il tutto bianco che domina, con i tondi coperti da stesure monocrome che coprono e rivelano, nello stesso tempo, le figure rappresentate nei riporti fotografici.
Ciò che manca del tutto in queste opere recenti è la parola, un elemento costante nell’opera di Isgrò, anzi un fattore assolutamente determinante anche quando si dava come reperto ultimo e solitario dopo che era passato il rullo della cancellazione. Ma il posto della parola non è assunto dall’immagine, che si presenta precaria, pericolante, insidiata com’è dall’invadenza del bianco che ne minaccia continuamente la stessa sopravvivenza: il posto della parola è preso, questa volta, da un oggetto, un orologio a muro, rotondo come le superfici che lo ospitano, con le lancette che segnano un’ora arbitraria, senza relazione con il contesto ambientale, e tuttavia talmente determinante nell’economia dell’opera da condizionarla fortemente con l’ossessiva scansione dei secondi.
La mostra, del resto, reca un titolo emblematico, «L’ora italiana», non perché esso abbia una significazione precisa, ma proprio per la ragione contraria, in quanto il titolo apre su una serie aperta di sensi metaforici e questi aumentano quel sentimenti di inquietudine che pervade l’intero spazio della mostra.
A questo effetto perturbante concorre l’illuminazione della sala affidata a una sorgente anch’essa a forma di disco, recante una serie di fari di automobile: la scena viene illuminata con una intensità che cresce in modo quasi impercettibile ma che perviene, in ogni caso, a una sorta di diapason; a questo punto, la luce cade vertiginosamente a zero, lasciando la sala nel buio più completo, mentre continua (e si fa ancora più inquietante) il ritmo incessante del tic-tac degli orologi.
Di nuovo incontriamo il motivo del tutto bianco (la sovraesposizione della luce) e del tutto nero (il buio della sala), polarità complementari in quanto tendono, alla fine, a un medesimo scopo (la luce abbagliante del meriggio cancella i particolari come il buio della mezzanotte), realizzando una sorta di coincidentia oppositorum. Tutto questo è esplicitamente voluto e sapientemente calcolato da Isgrò, che qui conferma le sue doti di artista e di uomo di teatro.
EMILIO ISGRÒ
L’Ora italiana
Museo civico archeologico
Bologna
Sino fine luglio