Per ora non dipingo, parlo
«Discussione», la performance che Giuseppe Chiari ha presentato recentemente a Napoli allo «Studio Trisorio», tiene fede al titolo fino in fondo. Chiari non fa più musica da molto tempo e da qualche anno semplicemente parla con gli spettatori: a volte tiene una «conferenza», come alla Biennale veneziana, a volte invece discute con il pubblico invitandolo a porgli delle domande. L’impiego della propria persona fisica (il corpo, la voce, i gesti) non ha particolare rilievo; ciò che conta è la parola adoperata nei modi diretti del discorso quotidiano. Dal pubblico partono le prime domande («Perché non fai più musica», «Che significato ha per te il silenzio», «in che misura ti consideri ancora un artista»). Il discorso immediatamente sbanda da tutte le parti, affronta i più diversi problemi, s’insinua nelle pieghe delle vita privata dell’artista, ne fruga le intenzioni, ne mette in discussione persino la buona fede, dal momento che egli pretende questa qualifica anche se non ci dà più musica, né oggetti, né immagini, ma solo parole che, messe in fila, hanno tutta l’apparenza di una chiacchierata fatta alla buona, tra pochi amici. In realtà ciò che si dice risulta meno importante della struttura della discussione, della cornice che la racchiude e delle linee direzionali che l’attraversano e la costruiscono. Sicché il procedimento della performance non risulta, alla fine, molto diverso dalla tecnica delle «improvvisazioni» musicali, realizzate dallo stesso artista negli anni Sessanta, quando lui e i suoi amici facevano musica accogliendo una molteplicità di suggerimenti sonori accidentalmente provenienti dall’ambiente. A dispetto delle apparenze, anche ora Chiari finisce con il realizzare un’opera, costruendola con una accorta composizione di elementi programmati ed elementi casuali.
In questo impiego della parola e del discorso diretto c’è anche una intenzione critica nei confronti di un uso dell’arte fondato sul consumo passivo di oggetti, disseminati in abbondanza lungo le grandi vie del mercato internazionale. E del resto, Chiari non è il solo ad aver avvertito questa esigenza di coinvolgere lo spettatore in un discorso critico sull’arte e sulla posizione dell’arte nel contesto sociale. Altri artisti, come il tedesco Joseph Beuys, ad esempio, e l’americano Jan Wilson, hanno sperimentato da tempo questo tipo di procedimento. In Beuys lo intento ideologico è tutto dichiarato: magro, allampanato, occhi spiritati e febbrili, un cappello di feltro in testa, camicia aperta e giubbetto verde mela, su cui fa spicco il distintivo emblema di Angela Davis, Beuys va esponendo da anni le sue idee politiche per la trasformazione della società. Libertà, democrazia, socialismo sono i temi affrontati. Niente democrazia astrattamente rappresentativa, niente socialismo burocratico e autoritario, ma una organizzazione comunitaria fondata sul consenso e sulla partecipazione. L’arte presenta, a questo punto, le proprie credenziali, proponendo se stessa come procedimento autodeterminato e come lavoro creativo in opposizione alla condizione repressa e alienata della società odierna.
In modi tutti diversi si presenta il «concettuale» Jan Wilson: se ne sta seduto dietro il tavolo come un conferenziere, vestito inappuntabilmente di scuro, colletto bianco e cravatta al suo posto. Al carisma e ai toni profetici di Beuys, Wilson contrappone l’asciutta efficienza dello scienziato, che vuole si comunicare con il pubblico ma dentro i limiti stretti di un discorso logico, rigorosamente conseguente, senza divagazioni e sbavature. La conversazione si trasforma ben presto in una sequenza veloce di domande e di risposte, come nel rapporto tra un ricercatore e il suo computer. E come il computer, Wilson rifiuta le domande non previste dal programma, anche lui tende a definire un’opera, ma a differenza di Beuys non sembra interessato tanto ai contenuti quanto alla forma logica del discorso. In questo, Wilson è più vicino a Chiari, anche se, diversamente da questi, non ammette nessuna ingerenza del caso e della improvvisazione, ma è piuttosto incline a chiudere il discorso dentro i confini ben definiti di una proposizione analitica o tautologica. Se gli si chiede quale sia la sua posizione intorno al problema dell’arte, risponde che la sua posizione è questa, «che è opportuno che ci sia una discussione sull’arte affinché si possa stabilire se è opportuno che ci sia la discussione sull’arte». È evidente che, in questi casi, la tautologia diventa una tecnica di provocazione intellettuale e una pratica di ironia intese a ritorcere sull’interlocutore (e sul contesto culturale a cui questi appartiene) tutte le idee ricevute sull’arte e la definizione dell’arte.