Presentate a Roma le sculture «arcaiche»

I piccoli mondi di Mattiacci

La personale di Eliseo Mattiacci alla galleria «L’Isola», di Roma, ripropone con forza il tema della scultura, che già per suo conto suscita da qualche tempo un crescente interesse. Cosa tanto più significativa in quanto la pratica della scultura ha fatto registrare in questi ultimi anni mutamenti piuttosto marcati: essa ha abbandonato ogni pretesa monumentalistica tradizionale (figurativa o astratta, non importa) e nello stesso tempo ha saputo accantonare la pressante ipoteca minimalista, per diventare il luogo di una esperienza soggettiva che si serve delle più diverse materie e orienta il procedimento verso la realizzazione di mitologie personali, di piccoli mondi, che vivono sotto il segno dell’ironia, della fabula, del racconto, di piccoli racconti.
Si tratta di declinazioni plastiche segnate dalla presenza di figure emblematiche, allusive, simboliche, ma sorrette, in ogni caso, da una forte esigenza costruttiva, da una nuova intenzionalità progettuale e da un maggiore controllo formale.

Forse è questa la ragione che mi ha spinto a riprendere fra le mani un testo di Michel Seuphor, Argomenti per la scultura, pubblicato nella rivista «Preuves» nel 1959: «Sembrava — vi si legge tra l’altro — che l’arte odierna, come l’uomo, avanzi su due piedi, il sinistro che conquista e il destro che conserva». Al primo corrisponde la pittura, che concede sempre più alla foga romantica e al gesto rivoluzionario; al secondo, la scultura, che, anche nei tentativi più arditi, conserva sempre un accento di classicità. E questo perché la scultura — sempre secondo Seuphor — è legata a una maggiore misura stilistica a causa degli stessi mezzi che è costretta a impiegare, mentre alla pittura conviene di più il grido, l’effusione diretta e immediata.
Seuphor scriveva alla fine degli anni Cinquanta e se la prendeva, chiaramente, con l’accademia informale, ma le sue osservazioni mi sembrano quanto mai attuali in un momento in cui la scultura ha saputo dare, già da alcuni anni, più di un segnale per un’arte sorretta da una più forte esigenza di misura e di forma. Ma gli argomenti di Seuphor si addicono, mi pare, soprattutto a una scultura, come questa di Mattiacci, che ha sempre conservato un che di antico, meglio ancora di arcaico, di primitivo.

Anche Mattiacci ha creato una sua mitologia personale e lo ricordo nel ’69, a S. Benedetto del Tronto, dove Dorfles e io avevamo curato una mostra intitolata «Al di là della pittura», alle prese con la costruzione di un’enorme zattera, come un nuovo Robinson. Si era in piena stagione di «arte povera + azioni povere» (il segnale era venuto da Amalfi l’anno precedente), si predicavano recuperi di modelli alternativi alla società dei consumi, di modi di esistenza lontani nel tempo e nello spazio, e si tributava una rinnovata attenzione per l’universo naturale.
Qualche anno più tardi Mattiacci ci propone un altro «Recupero di un mito» presentando all’Attico (allora ancora nel garage di via Beccaria) una serie di grandi fotografie di una tribù di pellerossa, e, in mezzo ad esse, anche un suo ritratto, quasi a dimostrare (ammesso che ce ne fosse bisogno) la interazione tra mito antropologico e mito personale.
Nelle sculture di questi ultimi anni rivive il suo profondo interesse per ciò che appartiene a una dimensione originaria, arcaica, a una natura intesa non come forme discrete e finite ma come luogo di formazione e attraversamento di energie cosmiche.

Queste sculture recenti, in fondo, hanno tutta l’aria di grandi macchine, di congegni e strumentari costruiti per captare il flusso di queste energie e immetterle nel circuito della vita quotidiana. Di qui la polisemia di queste opere, la loro apertura su livelli complessi di significazione, fino a riunire in sé il primitivo e l’avveniristico, l’arcaico e la science-fiction.
«Vorrei che nel mio lavoro si avvertissero processi che vanno dall’Età del ferro al Duemila», ha scritto lo stesso artista parlando con piena consapevolezza della sua opera. E ancora: «Attingere alle origini ancestrali come da stratificazione di energia fossile, echi della memoria, sguardo verso il futuro, rendere il tutto essenziale». E infine: «Gli archetipi e gli elementi primari sono la base della nostra esistenza, l’intuizione di inseguire un qualcosa che deve prendere forma…».

Il punto è questo: ciò che appartiene al dominio dell’invisibile e dell’impalpabile — il regno della pura energia — trova una sua forma materiale, concreta, essenziale, in virtù di una capacità febbrile in cui controllo mentale e sensibilità per la manualità e le materie sono una cosa sola. È su questa via che la scultura di Mattiacci si dirige «verso il poetico, il filosofico, il musicale».

ELISEO MATTIACCI
Galleria L’Isola
Via Gregoriana 5
Roma
fino al 30 maggio