Dipinge muri e in catalano «tapies» vuol dire muro

Tapies ha il destino nel suo nome

ROMA – La mostra antologica che la Fondazione Maeght ha dedicato al pittore spagnolo Antoni Tápies a Saint-Paul, così come la recente retrospettiva di Alberto Burri allestita dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, consentono una verifica critica dell’opera di due dei maggiori rappresentanti dell’arte del secondo dopoguerra, spesso accostati per consonanza e differenza, in quanto entrambi protagonisti della cosiddetta arte informale nella sua declinazione più propriamente materica. Come si è verificato per Burri, la mostra francese permette di constatare la capacità di durata dell’opera di Tápies, la sua attuale salute espressiva, anche se gli anni intorno al Cinquanta segnano indubbiamente il momento più dirompente del percorso artistico del pittore catalano.

Pochi moduli

La retrospettiva della Maeght è un’antologia di lavori compresi tra il ’53 e il ’75 e quindi segue puntualmente l’evolversi della ricerca di Tápies e nello stesso tempo ne mette in evidenza i dati costanti, la concentrazione quasi ossessiva dell’artista sugli stessi temi e su pochi, fondamentali moduli linguistici.
C’è un punto cruciale nella storia di Tápies, l’incontro con l’esperienza surrealista attraverso la mediazione del poeta Joan Brossa, amico intimo di Mirò e possessore di una favolosa biblioteca, dove Tápies scopre la rivista Minotaure e le principali pubblicazioni dell’avanguardia internazionale. Nel ’49, insieme ai compagni della rivista di avanguardia Dau al Set (lo stesso Brossa, il filosofo Arnau Puig e i pittori Tharrats, Ponç e Cuixart), Tápies incontra Mirò e ne rimane profondamente scosso. In una testimonianza, ne riconosce l’influenza determinante sulla propria opera, non solo per la invenzione di soluzioni pittoriche pressoché inesauribile, ma soprattutto «per la sua costante testimonianza a favore del nostro paese, il suo amore per la terra e la sua convinzione che, per fare qualche cosa di grande, dobbiamo avere delle radici che affondano il più profondamente possibile». L’esempio di Mirò e l’esperienza surrealista segnano il distacco di Tápies da un approccio ingenuo alla realtà, da una fiducia, non ancora criticamente vagliata, nella immediata leggibilità e comprensibilità del reale. Il momento surrealista contribuisce, cioè, ad arricchire di significati, di sensi profondi, lo spessore della materia pittorica: lo spazio del quadro non si identifica totalmente con la superficie, ma diventa un luogo di apparizione ricco di aloni fantastici e di rinvii analogici. Lo artista opera uno scandaglio dentro la fisicità della materia e dentro il proprio passato, recuperando, inestricabilmente fuse insieme, una dimensione storico-culturale (la propria terra, la Spagna, la Catalogna) e una dimensione psichica profonda. È lo stesso artista ad affermare esplicitamente l’importanza che hanno per lui le circostanze temporali, geografiche, culturali, e la carica archetipica e simbolica delle immagini.

Figura e fondo

Tutte queste motivazioni si traducono in strutture concrete, fortemente formalizzate, in cui è possibile ritrovare una sorta di costanza: immagini e frammenti di realtà si offrono allo sguardo in tutta la loro concretezza fisica, con una solidità di presenza oggettiva, tangibile, che tende ad occupare l’intera superficie del quadro, al limite fino a una identificazione tra le figure e il fondo. Ma questo resiste alla erosione completa, si affaccia tra le crepe, le spaccature dell’immagine, crea pur sempre un orizzonte, un al di là dell’immagine. Tra i due termini – la figura e il fondo – si stabilisce un serrato gioco dialettico, una tensione contraddittoria tra immediatezza percettiva del dato fisico e sprofondamento della memoria. Ma si instaura anche uno scambio di ruoli, sicché la morbidezza sfumata dello spazio si trasforma in un alone congelato, mentre l’immagine definita tende a rompersi in qualche punto, a scheggiarsi sui contorni, unendosi senza bruschi trapassi al fondo.
Le immagini alludono in maniera emblematica ai temi della porta, dello sbarramento, del muro, sembrano chiudere ogni varco verso la profondità, ma per il tramite delle incrinature che le attraversano l’occhio penetra al di là della porta, dello sbarramento e del muro, percepisce il limite e la profondità al di là del limite. «Se devo rendere conto del modo con cui ho preso coscienza, a poco a poco di questa potenza evocatrice delle immagini dei muri – ha scritto l’artista – occorre risalire a molto lontano. Sono ricordi che provengono dall’adolescenza e dai i miei anni giovanili stretti tra i muri, i muri dentro i quali ho vissuto le guerre (…). Nella città in cui avevo l’abitudine di considerarmi a casa mia tutti i muri recano la testimonianza del martirio del nostro popolo, gli arresti inumani che gli sono stati inflitti». Dalle opere di Tápies affiora, quindi, il ricordo della propria terra, della sofferenza che essa ha subito: ma queste presenze si danno in negativo, non come emergenza, bensì come cancellazione e clausura. Il muro diventa allora il simbolo più pregnante dell’intera opera di Tápies. Per questo, «Tápies» è una delle parole catalane che designano i «muri», l’artista ha parlato, per la sua opera e per questo suo tema dominante, di uno strano destino iscritto nel suo stesso nome.