Un bel sogno romano degli anni sessanta
Tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi del decennio successivo le cose che in Italia contavano veramente nel campo dell’arte, o, almeno le più nuove e stimolanti, accadevano a Roma e a Milano, a Roma, poi, le trovavi tutte in uno spazio ristretto, in un luogo privilegiato della città compreso tra piazza del Popolo e piazza di Spagna, dove c’erano le gallerie di punta, La Tartaruga, La Salita, L’Attico, ossia De Martiis, Liverani e i Sargentini, padre e figlio. In questo spazio esclusivo arrivavano segnai da tutte le parti e altri ne partivano: sicché Roma divenne, in quell’arco breve di anni, un indispensabile punto di riferimento in una fitta rete di relazioni che comprendeva altri snodi strategici, come Milano e Düsseldorf, Parigi e New York.
Il mito dei « favolosi anni Sessanta » trova proprio qui, in questo spazio concentrato, uno dei nuclei più fecondi di germinazione e forse il momento più felice e accattivante, almeno per quel che riguarda i fatti dell’arte. A creare questo mito contribuisce un personaggio singolare, il barone Giorgio Franchetti, nipote e figlio dei Franchetti che avevano messo su e completata la raccolta della Ca’ d’ Oro.
Tra i trenta e i quarant’anni, Giorgio Franchetti attinge proprio nel nuovo ambiente artistico romano il nutrimento necessario per riprendere la tradizione di famiglia e dare inizio alla sua collezione d’arte contemporanea, certamente tra le più personali e raffinate, che in questi giorni possiamo ammirare nelle sale del castello di Genazzano nella mostra ad essa dedicata da Achille Bonito Oliva
Franchetti comincia a sognare questo «sogno» appunto tra piazza del Popolo e piazza di Spagna, dove incontra gli artisti della neoavanguardia italiana e comincia a fiutare le nuove correnti d’ aria provenienti d’ oltre oceano. Sono incontri decisivi per il giovane barone, diviso tra gli affari, la vita mondana e l’amore per l’arte: anzitutto quello con Plinio De Martiis, proprietario della Tartaruga, che lo inizia ai segreti dell’arte nuova; poi l’incontro con Cy Twombly, l’ artista americano trasferitosi da NewYork a Roma, che espone per la prima volta proprio alla Tartaruga, con una presentazione di Palma Bucarelli; c’è il viaggio americano a New York dove conosce Leo Castelli che lo introduce negli studi di Rothko e di De Kooning, di Kline e di Raushenberg; e ancora l’amicizia con i giovani artisti romani, Scarpitta e Rotella, Schifano, Festa, Angeli, Lo Savio e più tardi Pascali e Ceroli.
Con i primi due Giorgio Franchetti condivide l’amore per le auto d’epoca esibendole come in una esposizione in movimento, nelle vie del centro e, soprattutto, sulla ribalta teatrale di piazza del Popolo, dinanzi ai tavolini di Rosati…
Forse è proprio questa la chiave del « sogno » del barone-collezionista, un sogno « romano » prima ancora che italiano, come ci fa chiaramente capire lui stesso parlando di Roma e del « grande teatro » che furono gli anni Sessanta nella conversazione con Bonito Oliva pubblicata nel catalogo della mostra: « E fu un teatro con Schifano, Festa, Angeli, Pascali, Rotella… Beh, prima c’erano stati gesti di Rotella, di Sacrpitta. E noi che facevamo la collezione di auto antiche, facevamo le passeggiate romane portandoci appresso gli artisti, come a un divertimento fatto con oggetti in movimento perché l’automobile è un oggetto d’arte (…) ».
La collezione Franchetti nasce, dunque, da un gusto personalissimo, da una sorta di poetica, sorretta da due sollecitazioni complementari, che agiscono simultaneamente: quella che proviene dal gran teatro della vita, alla ricchezza barocca di Roma, dalla pienezza solare del colore e dal coinvolgimento dell’immagine e della fabula; e quella, invece, che nasce da un’esigenza di riduzione, da una sorta di vertigine del vuoto e dell’assenza, dal bianco o dal nero come luoghi propri per una pratica dell’arte come esercizio mentale: la « puritana » Milano è la patria di quest’arte più ascetica, che troviamo realizzata nelle opere di Manzoni e Castellani.
L’arte come teatro, come messa inscena della vita, resta in ogni caso il leit-motiv della collezione e si capisce come un altro incontro determinante sia stato per Giorgio Franchetti l’opera e la stessa esistenza quotidiana di Pino Pascali. Ce lo dice lui stesso parlando della sua decisione di dedicare tutta la collezione all’arte italiana: « Nel ’66 mi decisi (…), fu la mostra fatta a Foligno, quando Pascali presentò un’opera chiamata “ Trentadue metri quadri di mare circa”. Era composta da 32 piastre, con bordi rialzati che contenevano dell’acqua, nella quale lui, versando colori, faceva varie tonalità del mare ».