Dipingo, dunque sono
Gli artisti, si sa, non amano le definizioni, le etichette che inquadrano le loro esperienze in questa o quella corrente. Giustamente non si riconoscono, essi che lavorano nel concreto della propria individualità, in schemi astratti, in classificazioni di comodo. Italo Mussa, che ha organizzato questa mostra all’insegna de I colori della pittura, presentando nell’Istituto Italo-Latino Americano, all’EUR, trentasei pittori europei, non ignorava certo questa diffidenza quando ha sollecitato gli artisti a rispondere ad alcune domande, la prima delle quali chiede, con apparente ingenuità, se essi accettano le definizioni che cercano di circoscrivere le nuove declinazioni della pittura. Le etichette sono molte (Pittura-pittura, Pittura analitica, Nuova pittura, Riflessione sulla pittura, ecc.) e questo aumenta l’irritazione degli addetti ai lavori: sicché la prima domanda è stata letteralmente sommersa da una marea di contestazioni. Eppure, se questi trentasei pittori italiani, francesi, tedeschi, inglesi, olandesi si sono ritrovati insieme in questa mostra (come pure in molte altre precedenti di cui l’ottimo catalogo fornisce un’utile e precisa cronologia) una ragione ci deve pur essere. In definitiva, questi artisti operano nell’ambito della pittura, hanno cioè compiuto una scelta di campo, campo linguistico, scartando, ad esempio, altri modi espressivi, come quelli che si affidano al comportamento facendo del corpo e della gestualità lo strumento della comunicazione estetica. Gli artisti presenti nella mostra romana non solo scelgono la pittura e il quadro, ma rivendicano anche un’area di ricerca diversa nei confronti della pittura precedente, non soltanto di quella rappresentativa, ma anche della pittura considerata astratta. Al di là delle declinazioni singole un denominatore comune a queste esperienze esiste, quindi, ed è stato chiaramente individuato da G. C. Argan nella introduzione al catalogo, là dove si dice che questi pittori «credono che oggi non si possa fare pittura senza fare contestualmente l’analisi di che cosa è la pittura, e questa analisi non si può fare se non dipingendo, anzi dipingendo quella pittura». E poiché la sostanza fenomenica della pittura è il colore, gli artisti concentrano la loro ricerca anzitutto su questo elemento, per estenderla poi «alla tela e al telaio, cioè al quadro ed eventualmente alla parete e all’ambiente, portando così a fondo la critica dei rapporti pittura-quadro, quadro-oggetto, oggetto-spazio, ecc.». In questi procedimenti esiste, quindi, una marcata componente analitica e autoriflessiva, e si registra una sorta di scarto, di scollamento tra il fare la pittura e il fare il discorso sulla pittura.
Questo atteggiamento non è del tutto inedito, in quanto esso spinge alle conseguenze estreme una componente criticistica e analitica che agisce in molte esperienze dell’arte contemporanea; ma proprio per la radicalità con cui l’atteggiamento si presenta nelle declinazioni attuali della pittura, si può legittimamente parlare di un’arte che fa della riflessione su se stessa la ragione principale del proprio essere.
Se confrontata alle mostre precedenti, questa esposizione romana insiste maggiormente sul tema del colore e giustamente Mussa ha impegnato gli artisti a rispondere sul ruolo che il colore ha nei loro singoli atti di pittura. È appunto dentro la concretezza fisica del colore che il fare e il pensare la pittura trovano un rapporto dialettico. Tra questi due termini gli artisti instaurano equilibri diversi, così come tra il momento più specificamente analitico e quello espressivo: sicché ciascuno gioca la propria carta spostandosi liberamente nello spazio compreso tra queste due opposte polarità. Alla pittura fredda di Charlton e Denny, di Green e Verna (in questa fase) è possibile perciò contrapporre un uso del colore che sembra accogliere una serie di riferimenti esterni, di ordine fenomenico (Battaglia, van de Windt) o puntare su trasparenze luminose (Guarnieri) o, al contrario, su densità materiche che conferiscono alla superficie un più marcato spessore (Berghius, Erben, Rajlich).
Maggiormente impegnati in un procedimento analitico sui dati elementari della pittura appaiono Morales, Cotani, Zappettini, Bartolini, Passa, Viallat, Isnard, mentre Camorani e Pinelli si affidano piuttosto ad un contrappunto colore materia, con un allargamento della fruizione sensoriale. Talvolta il colore coinvolge l’osservatore in una sorta di percezione prolungata (Olivieri) o tende a farsi muro o intonaco con un ricordo della grande tradizione pittorica (Marchegiani); in altri casi definisce unità segniche elementari e discontinue (Griffa, Gastini, Masi). Su un altro versante ancora, il colore diventa il luogo fisico e insieme teorico in cui si pone al centro della questione pittura la posizione del soggetto: Cana e Devade tendono a una «pittura come scrittura» che sia in grado di avvicinare «il soggetto alla sua pratica», di eliminare cioè ogni censura che ostruisca il passaggio del desiderio in linguaggio.