Torna bianca e nera la tavolozza giovane
C’è una situazione artistica romana che si viene delineando con una fisionomia piuttosto precisa e che si colloca in uno spazio alternativo rispetto ad altre aree più consolidate dal punto di vista della critica e del mercato. Una situazione nuova con alle spalle, tuttavia, già alcuni anni di attività, già bene individuata almeno all’interno della cerchia degli addetti ai lavori, critici, artisti e qualche gallerista più attento. C’è stato, anzitutto, il lavoro di esplorazione compiuto da quell’infaticabile sperimentatore che è Sergio Lombardo con il suo centro di studi «Jartrakor», di via dei Pianellari; e c’è stato Liverani con la galleria «La Salita», veramente onnipresente fin dai lontani anni Sessanta ogni volta che si è trattato di cogliere una presenza nuova.
Gianni Asdrubali, Antonio Capaccio, Bruno Querci, Mariano Rossano, Lucia Romualdi, Rocco Salvia sono venuti alla ribalta della scena artistica romana nel corso dell’ultima stagione facendo registrare una svolta piuttosto marcata nel panorama dell’arte odierna. Personalmente seguo da qualche tempo il lavoro di questi artisti e dalla loro opera (anche se non da essa soltanto) ho preso lo spunto per una recente proposta critica intesa a porre in evidenza quei procedimenti operativi che scelgono, ancora una volta, come fatto assolutamente prioritario, i problemi del linguaggio e pongono la questione dell’opera come un fatto di ordine costruttivo.
Il lavoro di questi artisti, la novità che essi recano nel contesto attuale, sono il dato di una scelta precisa, di una internazionalità progettuale che vuole evitare anzitutto ogni facilità espressiva, come pure qualsiasi accattivante suggestione narrativa, senza cedere, nello stesso tempo, a tentazioni puristiche legate a un’idea tradizionale di astrazione.
In questa nuova area di esperienze non hanno più corso, quindi, le parole d’ordine ricorrenti fino a qualche tempo addietro, quali eclettismo, storicismo, regionalismo, nomadismo, anacronismo, ecc. E si capisce, allora, perché questa situazione sia stata del tutto ignorata da mostre, peraltro ricche e articolate, come gli emiliani «Anniottanta», le «Nuove Trame dell’Arte» di Genazzano, la ricognizione astratto-informale della Rotonda di via Besana, a Milano. Da quanto si sa delle intenzioni veneziane, l’«Aperto ’86» della Biennale non registra minimamente il fenomeno, mentre la Quadriennale sembra voler dare qualche segnale in questa direzione con i settori dedicati all’«Arte come visitazione dei linguaggi astratto-informali» e all’«Arte di Nuove Immagini e Nuovi Materiali».
Il fatto è che questi artisti rifiutano le vie fino a ieri più frequentate e confortevoli e si attestano, con lucida consapevolezza critica, su una linea sottile, su un territorio ristretto e in qualche misura impervio e di qui riprendono il filo di un fare artistico che punta sulla praticabilità attuale di un’idea di costruzione.
Essi si contrappongono in maniera netta alla pittura che punta tutto sul pieno, sull’ingombro, sulla sovrabbondanza cromatica, materica, narrativa, muovendo da un atteggiamento iniziale, preliminare, di sottrazione e di riduzione spinte, a volte, fino all’azzeramento linguistico.
Di qui la caratteristica dominante del loro lavoro, il tratto che li accomuna al di là delle naturali differenze: l’impiego, cioè, del bianco e del nero e delle gradienze intermedie dei grigi come fulcro della pratica pittorica.
Ciò che conta non è dunque il pieno ma, appunto, il vuoto, la «sensazione concava», di cui parlava Musil per indicare una condizione propizia all’esercizio della mente.
Non è un caso, del resto, che due di questi artisti, Capaccio e Rossano, ci abbiano proposto l’esperienza singolare di una mostra allestita, alla fine dell’anno scorso all’Orto Botanico di Roma, «per una sola notte dalle cinque all’alba»: una esperienza posta sotto il segno dell’assenza (dell’assenza del rumore del mondo) e dell’alba, vera e propria metafora di un passaggio, di una condizione di soglia tra giorno e notte, tra nero e bianco.
Dal canto suo, Sergio Lombardo ha riunito da tempo, nel suo centro di dei Pianellari, un gruppo di artisti interessati a una pratica dell’arte più fredda e analitica, impostata addirittura su basi sperimentali. Il gruppo, formato da Anna Homberg, Giovanni Di Stefano, Cesare M. Pietroiusti e dallo stesso Lombardo, espone in questi giorni nelle sale del centro «Jartrakor» un nutrito campione delle proprie ricerche: si tratta di opere «costruite» sulla base di una ipotesi teorica, sulla possibilità, cioè, di porre su un piano di pura sperimentazione il rapporto, fondamentale in ogni operazione artistica, tra regola e caso, tra spontaneità e controllo.
DI STEFANO, HOMBERG,
LOMBARDO, PIETROIUSTI
Galleria Jartrakor
via dei Pianellari 20, Roma
fino al 30 giugno