Quando la città soffoca il monumento
NAPOLI – Non credo di commettere reato di lesa archeologia (o romanità) se dico che il Colosseo è oggi soprattutto un immenso spartitraffico, così come non credo di coinvolgere i valori della Resistenza o dell’arte se dico che il Monumento alle 4 giornate di Napoli di Marino Mazzacurati appare ridotto anch’esso a salvagente, all’ufficio di rotonda per il veloce carosello delle automobili che si dirigono verso Mergellina o Fuorigrotta o ritornano al centro per via Caracciolo. Ancora un segno (se ce ne fosse bisogno) delle difficoltà di stabilire un rapporto di interazione tra le ragioni dell’arte e quelle della città: in questo caso, le ragioni del monumento, come luogo di condensazione di memorie e di aspirazioni collettive, e la congestione impaziente del traffico odierno.
Su questo problema, oltre che, naturalmente, sul valore simbolico del monumento, è imperniata la mostra che il Comune di Napoli ha dedicato a Marino Mazzacurati e al suo Monumento alle 4 giornate in occasione del 34° anniversario degli avvenimenti. L’esposizione, aperta in Palazzo Reale fino al 16 ottobre, presenta una raccolta antologica dell’opera dell’artista, dagli anni della seconda guerra mondiale fino alla sua morte, nel 1969, ma è incentrata soprattutto sui disegni preparatori e sui bozzetti del monumento napoletano.
L’iniziativa non vuole avere quindi solo una funzione celebrativa, ma intende riproporre anche il problema del rapporto tra intervento artistico e intervento urbano, tra monumento e città, un tema al quale sarà dedicata infatti una tavola rotonda il 12 ottobre. Del resto, Mazzacurati aveva pensato il monumento anche in funzione urbana, realizzando una struttura di quattro parti, quattro facciate o stele, rivolte verso i quattro punti cardinali della Riviera di Chiaia, rappresentando gli episodi e i protagonisti dell’insurrezione (gli scugnizzi, le donne del popolo, i soldati) come una massa continua, organicamente inserita dentro la superficie delle stele e da queste emergente in un rapporto di continuità-discontinuità, di architettura-scultura.
Ma l’intelligenza dell’artista e la buona volontà degli amministratori non sono bastate a salvare il monumento dal suo attuale destino di puro e semplice oggetto dell’arredo urbano. Del resto, non si tratta solo di intelligenza e di buona volontà, ma di una frattura profonda, forse incolmabile, tra due sistemi di esperienze e di valori.
Ma questi tentativi, questa stessa mostra, il dibattito che si terrà sui rapporti tra monumento e città, sono il segno di un malessere, di una consapevolezza, anche dolorosa, che occorre fare assolutamente qualcosa perché questo divario venga ridotto, se non proprio abolito; e sono anche il segno di una nostalgia per altri momenti storici in cui arte e città erano (o si crede che fossero) armonicamente integrati.
La realtà attuale e comunque diversa: l’oggetto artistico, monumento compreso, una volta inserito nel contesto della città non sembra possa sfuggire a una duplice sorte: o riesce ad appartarsi dal movimento concitato della città, a ritagliarsi uno spazio proprio, una sorta di recinto, e allora può essere anche afferrato nei suoi significati propri, ma è come se ripristinasse la condizione separata del museo o della galleria; oppure la città ha il sopravvento, assorbe l’opera d’arte, il monumento, o, meglio, lo inghiotte, riducendo, grazie al suo accelerato metabolismo, a oggetto comune intorno al quale la vita continua a svolgersi indifferente, come prima, prima che un artista pensasse di poter cambiare qualcosa. La città, questa città, fra a meno dell’arte, del monumento, o li assimila a un cartello stradale o a una pompa di benzina.
Ma dobbiamo pure chiederci, a questo punto, se questa incomprensione sia addebitabile solo alla città o non anche a un’arte che non riesce a staccarsi con coraggio dalle sue funzioni tradizionali e che, forse, dobbiamo considerare perdute.