Una raccolta di arte primitiva dedicata all’intellettuale che ne fu appassionato conoscitore

Sculture d’Africa in omaggio a Marlaux

Forse non farà piacere agli antropologi puri e agli specialisti più esclusivi, ma è un fatto, ormai, che non riusciamo a guardare all’arte «primitiva» in generale, e alla scultura negra in particolare, se non attraverso gli occhi degli artisti moderni che hanno attinto a queste esperienze estetiche più d’una suggestione del loro sforzo di rinnovare dalle fondamenta il linguaggio dell’arte. E bisogna dire che uno dei meriti maggiori della mostra dedicata alla «Scultura Africana», aperta in questi giorni a Roma, nelle sale di villa Medici, è di aver preso atto senza pregiudizi rigoristici di questa condizione preliminare di lettura, non rinunciando peraltro a un’impostazione scientificamente precisa, di cui si ha una eloquente testimonianza nel bellissimo catalogo curato da Jacques Kerchache. Non è una caso, del resto, che l’esposizione sia stata posta sotto le stelle di Andrè Malraux e costituisca una sorta d’introduzione a un convegno che si terrà nei prossimi giorni presso l’Istituto francese di cultura, in piazza Campitelli, intorno alla figura e all’opera dello scrittore.

Malraux, si sa, è stato un appassionato conoscitore dell’arte negra, ma lo è stato alla sua maniera particolare, con quel modo di entrare in situazione nei contesti più diversi e inattesi, con quella sua capacità di partecipare dal dì dentro ad eventi i più inusitati (“La condizione umana” ne è l’esempio più limpido e prestigioso), per uscirne fuori con la testa sgombra, pronte ad altre avventure. In qualche modo Malraux appartiene alla stessa famiglia dell’artista per il quale egli ha avuto la più grande ammirazione: sto parlando di Picasso, della sua inesausta capacità di trarre tutto il nutrimento possibile dalle esperienze più diverse e contraddittorie. Ed è tramite Picasso, appunto, che Marlaux introduce il discorso sulla scultura negra nel suo libro «La Testa di ossidiana»: «Si parla sempre dell’influenza dei negri su di me – queste le parole dell’artista riportate dallo scrittore -Come fare? Tutti amano i feticci. Quando Matisse mi ha mostrato la sua prima testa di negro, mi ha parlato di arte egiziana. Quando sono andato al Trocadero, era disgustoso, un vero mercato delle pulci. Ero completamente solo, volevo andarmene, non andavo via, rimanevo, capii che era molto importante, che mi accadeva qualche cosa. Mi trovavo in piena magia. Le maschere non erano sculture come le altre, assolutamente no, erano cose magiche».
Ecco. L’arte negra è entrata a far parte della cultura dell’Occidente attraverso una sorta di illuminazione, di un improvviso, e non più cancellabile, scatto di empatia tra le centinaia, migliaia di artisti anonimi dell’Africa e il più personale, il più inconfondibile degli artisti moderni. Naturalmente, Picasso non è stato l’unico tramite tra arte negra e arte moderna: all’incirca negli stessi anni, a Dresda, quattro, cinque giovani artisti chiedevano alle culture primitive un aiuto decisivo nella loro critica allo stato di civilizzazione. Ma l’interesse che gli espressionisti tedeschi (di loro, appunto, si tratta) avevano per scultura primitiva assumeva un carattere notevolmente diverso, una connotazione più strettamente antropologico-culturale, mentre nell’area degli interessi parigini volgeva maggiormente verso i problemi del linguaggio.

Non c’è dubbio, comunque, che le radicali novità provenienti da Parigi o da Dresda, in quella congiuntura straordinaria segnata dall’incontro dei Fauves, degli espressionisti e dei cubisti, erano legate anche alle sconvolgente rivelazione della plastica africana.

Dalla nostra distanza non è facile rivivere l’atmosfera epica di quegli anni nel corso dei quali è maturata la «rivoluzione dell’arte moderna», ma la fortissima suggestione che emana da queste sculture sembra quasi annullare il tempo e c’introduce all’interno di uno spazio che conserva intatta la propria potenzialità magica. Vi contribuisce anche la regia dell’allestimento, che ha riempito gli ambienti di una diffusa penombra isolando in un cerchio di luce le singole opere. Ma, subito dopo, la lettura ravvicinata sposta l’attenzione sui fatti linguistici, quegli stessi che colpirono gli artisti dell’avanguardia con l’indicazione precisa, eloquente, perentoria di possibilità plastiche assolutamente nuove.

Il fatto è che questa scultura, pur nelle sue variazioni e differenze, poste giustamente in rilievo nelle schede del catalogo (i Dogon, i Gyriama, i Licbi, i Lobi, i Mossi, i Fon, eccetera fino ai Vodù, nelle due versioni geografiche e cronologiche africana e haitiana) si presenta nel suo complesso con una potenza plastica che non finisce mai di sorprenderci, coinvolgendoci in una lettura in cui la suggestione dell’insieme cede a poco a poco il posto a un’indagine più fredda ed analitica, in grado di smontare e rimontare questi poderosi e perfetti congegni plastici.
SCULTURA AFRICANA
Villa Medici
Roma
fino al 15 giugno